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Le fondamenta critiche: Decostruzione, Intersezioni e Margini
Il pensiero femminista contemporaneo è un campo intellettuale vibrante e complesso, animato da una critica radicale alle strutture di potere che perpetuano le disuguaglianze.
All'interno di questo panorama, le voci di Judith Butler, Kimberlé Crenshaw e bell hooks hanno profondamente trasformato il dibattito, sfidando nozioni universalistiche e offrendo strumenti analitici indispensabili per comprendere la natura multidimensionale dell'oppressione.
In particolare, il loro lavoro si rivela fondamentale per articolare le istanze del femminismo decoloniale, un approccio che pone al centro della sua analisi l'impatto del colonialismo e della razza sulla costruzione del genere e che trova nei concetti di intersezionalità e margine il suo fulcro metodologico.
Per comprendere l'impatto di queste tre pensatrici, è essenziale delineare i loro contributi individuali, che, pur distinti, dialogano costantemente.
La ferita originaria: l'esclusione della donna nera in "Ain't i a woman?"
Il punto di partenza per questa decostruzione del soggetto femminista si trova nell'opera pionieristica di bell hooks,(pseudonimo di Gloria Jean Watkins, scritto volontariamente in minuscolo per spostare l'attenzione dal nome all'opera) "Ain't I a Woman? Black Women and Feminism".
Con un'analisi storica e culturale meticolosa, hooks svela la ferita originaria del movimento femminista americano: la sua incapacità di riconoscere e includere l'esperienza delle donne nere.
Il titolo stesso, che evoca la celebre domanda retorica dell'abolizionista Sojourner Truth, incapsula la tesi centrale del libro: storicamente, alle donne nere è stato negato lo status stesso di "donna".
bell hooks argomenta che durante la schiavitù, le donne nere furono sistematicamente de-femminilizzate e de-umanizzate.
Mentre la femminilità bianca era costruita attorno a ideali di purezza, delicatezza e domesticità – ideali che servivano a giustificare il confinamento delle donne bianche nella sfera privata – le donne nere erano trattate come bestie da soma, sfruttate per il loro lavoro e la loro capacità riproduttiva senza alcuna concessione alla loro umanità o al loro genere.
Questa brutale eredità, sostiene hooks, ha creato una frattura insanabile.
Quando il movimento femminista della "seconda ondata", guidato prevalentemente da donne bianche della classe media, iniziò a parlare di "oppressione femminile", stava in realtà universalizzando la propria esperienza di oppressione, ignorando che per le donne nere il sessismo era inestricabilmente intrecciato con il razzismo e lo sfruttamento di classe.
L'analisi di hooks è una critica duplice: da un lato, accusa il movimento femminista di complicità con il suprematismo bianco (per aver ignorato le donne nere); dall'altro, critica il movimento di liberazione nero, dominato da uomini (per aver riprodotto al suo interno le stesse dinamiche sessiste del patriarcato bianco).
Le donne nere si trovavano così in una posizione di doppia marginalizzazione, invisibili sia alla politica femminista che a quella antirazzista.
"Ain't I a Woman" non si limita a denunciare un'ingiustizia, ma pone una sfida teorica fondamentale: dimostra che la categoria "donna" non è un'identità stabile e condivisa, ma un costrutto storicamente e razzialmente determinato, un privilegio negato a chi non rientra nella norma bianca.
Il lavoro di bell hooks ha rappresentato una critica costante e profonda al femminismo bianco, borghese e mainstream.
Ben prima che il termine "intersezionalità" diventasse di uso comune, hooks analizzava l'intreccio inestricabile di razza, classe e genere come sistemi di dominio interconnessi.
Fondamentale nel suo pensiero è il concetto di "margine": non solo luogo di oppressione, ma anche spazio di resistenza e di visione radicale.
Vivere ai margini, secondo hooks, offre una prospettiva critica unica sul centro, una capacità di vedere le strutture di potere che rimangono invisibili a chi ne è privilegiato.
Dare un nome all'incrocio: Kimberlé Crenshaw e la Teoria dell'Intersezionalità
Se hooks ha esposto la marginalizzazione esperienziale e storica delle donne nere, è stata la giurista Kimberlé Crenshaw, nel suo saggio "Demarginalizing the Intersection of Race and Sex", a fornire il linguaggio teorico e la cornice analitica per comprendere questa complessità.
Coniando il termine "intersezionalità", Crenshaw ha offerto uno strumento concettuale di straordinaria potenza per analizzare come i sistemi di potere non operino in isolamento, ma si intersechino creando esperienze uniche di oppressione.
L'intersezionalità non è una "somma" di identità o oppressioni: è una metafora che illustra come le forme di subordinazione interagiscano strutturalmente.
Crenshaw parte da esempi concreti tratti dalla giurisprudenza antidiscriminatoria. Analizza casi, come quello di DeGraffenreid v. General Motors, in cui cinque donne nere fecero causa all'azienda per discriminazione.
La loro richiesta fu respinta perché il tribunale considerava le accuse di discriminazione razziale e sessuale come separate e distinte.
L'azienda poteva così dimostrare di aver assunto persone nere (uomini) e di aver assunto donne (bianche), negando così che esistesse una discriminazione specifica contro le donne nere.
La loro esperienza, situata precisamente all'intersezione tra razzismo e sessismo, era legalmente e concettualmente invisibile.
Crenshaw critica aspramente questo approccio che definisce "a singolo asse" (single-axis analysis), sostenendo che esso struttura il pensiero femminista e antirazzista in modi che emarginano chi è soggetto a molteplici forme di subordinazione.
La politica femminista, concentrandosi sul sessismo, implicitamente assume come soggetto la donna bianca.
La politica antirazzista, concentrandosi sul razzismo, implicitamente assume come soggetto l'uomo nero.
L'intersezionalità, quindi, è un correttivo analitico: impone di "demarginalizzare" le esperienze di coloro che vivono a questi incroci, ponendole al centro dell'analisi per rivelare la vera natura multidimensionale del potere.
Il contributo di Crenshaw ha trasformato non solo la teoria femminista, ma anche l'attivismo e la giurisprudenza, fornendo un lessico preciso per articolare ciò che hooks e altre femministe nere avevano a lungo sostenuto: non si può comprendere l'oppressione di genere senza considerare la razza, la classe e gli altri assi di potere che la modellano.
Kimberlé Crenshaw, giurista e teorica critica della razza, ha dunque fornito al pensiero femminista lo strumento concettuale più potente degli ultimi decenni: l'intersezionalità.
Coniato alla fine degli anni '80, questo termine descrive come diverse categorie sociali e identitarie – razza, genere, classe e orientamento sessuale – non operino in modo separato, ma si intersechino, creando esperienze uniche e sovrapposte di discriminazione e privilegio.
L'intersezionalità, è un'analisi qualitativa di come queste discriminazioni si "co-costituiscono", generando nuove forma di subordinazione.
La dissoluzione del Soggetto: Judith Butler e la critica al soggetto unitario del femminismo.
Judith Butler, con la sua teoria della "performatività di genere", ha inferto un colpo decisivo all'idea che il genere sia un'essenza stabile e naturale, legata al sesso biologico.
In opere capitali come "Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity", Butler sostiene che il genere non è qualcosa che "siamo", ma qualcosa che "facciamo".
È una performance: una ripetizione stilizzata di atti, gesti e discorsi socialmente codificati che, nel tempo, produce l'illusione di un'identità di genere interna e fissa.
Questa decostruzione della categoria "donna" come soggetto unitario e trans-storico si è rivelata cruciale.
Se non esiste una "donna universale", il femminismo non può più pretendere di parlare a nome di tutte le donne senza interrogarsi su quali donne vengano implicitamente escluse o marginalizzate da questa presunta universalità.
La critica di Butler all'essenzialismo apre uno spazio per pensare alle identità di genere in modo più fluido e complesso.
Se hooks e Crenshaw hanno dimostrato che la categoria "donna" è fratturata e complessa, Butler la sottopone a una decostruzione radicale, mettendo in discussione l'esistenza stessa di un'identità di genere pre-discorsiva e stabile che il femminismo dovrebbe rappresentare.
Butler sostiene che anche il sesso non sia un dato biologico neutro, ma una categoria interpretata e costruita attraverso il discorso culturale.
Non esiste un "corpo naturale" a cui si possa accedere al di fuori delle norme di genere che lo rendono intelligibile.
Il sesso, quindi, è già esso stesso una costruzione di genere.
Da qui, Butler sviluppa la sua celebre teoria della performatività di genere.
Il genere, secondo Butler, non è un'essenza interiore o un'identità stabile che abbiamo, ma un effetto prodotto da una serie di atti, gesti e discorsi ripetuti nel tempo.
È una "performance" che, attraverso la citazione continua di norme sociali, produce l'illusione di un'identità di genere coerente e naturale.
Non c'è un "io" che compie atti di genere; piuttosto, l'identità di genere è l'effetto di questi atti: "non c'è un attore dietro l'azione".
Questa intuizione ha conseguenze politiche dirompenti per il femminismo.
Se non esiste una categoria stabile e pre-esistente di "donna", allora la politica femminista non può più basarsi su una politica di rappresentanza identitaria. Pretendere di parlare a nome "delle donne" diventa un atto regolatore che inevitabilmente esclude e marginalizza coloro che non si conformano a quella definizione implicita.
La critica di Butler, quindi, non nega la realtà del sessismo, ma contesta l'idea che la lotta contro di esso debba fondarsi su un'identità fissa.
Propone invece una politica femminista che sovverta le norme di genere attraverso la "ripetizione sovversiva" – atti come il drag e la parodia che espongono la natura costruita e imitativa del genere, aprendo spazi per identità più fluide e meno normative.
Il lavoro di Butler offre così gli strumenti filosofici per comprendere come le categorie identitarie vengano prodotte e mantenute dal potere, fornendo una base teorica per la critica all'esclusione che hooks e Crenshaw avevano identificato a livello strutturale e storico.
Il Femminismo Decoloniale: Svelare la "Colonialità del Genere"
Il femminismo decoloniale emerge come una critica radicale al femminismo eurocentrico, il quale, pur opponendosi al patriarcato, ha spesso universalizzato l'esperienza della donna bianca, borghese e occidentale, diventando inavvertitamente complice delle logiche imperiali.
Pensatrici come María Lugones, Ochy Curiel e Françoise Vergès sostengono che il genere stesso, così come lo concepiamo oggi (un sistema binario e gerarchico), non sia un dato universale, ma un'imposizione del progetto coloniale.
La "colonialità del genere", concetto centrale elaborato da María Lugones, afferma che i colonizzatori europei abbiano distrutto le molteplici e più fluide organizzazioni sociali e di genere preesistenti nelle società indigene, imponendo una visione dicotomica e patriarcale in cui la donna colonizzata era sub-umanizzata e soggetta a una violenza specifica, distinta da quella subita sia dagli uomini colonizzati sia dalle donne bianche.
È qui che il pensiero di Crenshaw e hooks si rivela non solo pertinente, ma fondativo.
L'intersezionalità è lo strumento d'elezione del femminismo decoloniale perché permette di analizzare precisamente come la colonialità operi attraverso l'intreccio di razza, genere e classe.
Permette di vedere come la categoria "donna" sia stata fratturata dalla violenza coloniale, creando gerarchie tra la donna bianca (vista come l'epitome della femminilità e della civiltà) e la donna razzializzata (animalizzata e resa oggetto di sfruttamento).
Il richiamo di bell hooks a un femminismo che lotti simultaneamente contro sessismo, razzismo e capitalismo risuona come un manifesto del progetto decoloniale, che vede queste oppressioni come inseparabili, radicate in un unico sistema di dominio "capitalista-patriarcale-coloniale-moderno".
Un Dialogo Critico: L'Incontro con Butler
La relazione tra il pensiero di Judith Butler e il femminismo decoloniale è complessa e ambivalente.
Da un lato, la decostruzione butleriana della categoria "donna" è strategicamente utile per la critica decoloniale all'universalismo femminista. Smascherare la presunta naturalità del genere aiuta a rivelarne la costruzione storica e culturale, inclusa la sua imposizione coloniale.
Dall'altro lato, diverse pensatrici decoloniali hanno espresso perplessità verso un approccio (post-strutturalista) che, a loro avviso, rischia di dissolvere la materialità dei corpi e delle esperienze in un gioco di significanti puramente discorsivo.
Per una donna indigena o nera la cui esistenza è brutalmente definita dall'oppressione razziale e di genere, l'affermazione che il "genere è una performance" può suonare come un lusso intellettuale distante dalla violenza quotidiana.
María Lugones, pur dialogando con il post-strutturalismo, insiste perciò sulla necessità di partire dall'esperienza vissuta della donna colonizzata.
La critica decoloniale, pur riconoscendo l'importanza di Butler nel problematizzare le identità, mette in guardia contro il rischio che una decostruzione senza ancoraggio geopolitico e storico possa, paradossalmente, cancellare la specificità delle lotte delle donne del Sud Globale, riproponendo una teoria con pretese universali generata nel contesto accademico occidentale.
Il "Soggetto Frantumato": Decostruzione e Intersezionalità nel pensiero femminista
Il pensiero femminista della seconda ondata aveva fondato la sua forza politica sulla nozione di una "sorellanza universale", un'identità condivisa di "donna" unita nella lotta contro un patriarcato monolitico.
Tuttavia, questa presunta universalità nascondeva al suo interno profonde crepe e omissioni.
La fine del XX secolo ha visto emergere una critica radicale e trasformativa a questo modello, proveniente da pensatrici che hanno messo in discussione le fondamenta stesse del soggetto femminista.
Le opere seminali di bell hooks, Kimberlé Crenshaw e Judith Butler, pur partendo da prospettive disciplinari diverse – la critica storica ed esperienziale, l'analisi giuridica e la filosofia post-strutturalista – convergono nel compiere un'operazione intellettuale cruciale: smantellano la categoria di "donna" come soggetto unitario.
Analizzando i loro contributi emerge un percorso che dalla denuncia dell'esclusione razziale porta alla teorizzazione dell'intersezionalità come strumento analitico, fino a giungere alla decostruzione performativa della stessa identità di genere.
Insieme, questi lavori hanno imposto al femminismo una svolta irrevocabile verso una politica più complessa, autocritica e radicalmente inclusiva.
In conclusione, il pensiero di Judith Butler, Kimberlé Crenshaw e bell hooks offre un arsenale teorico indispensabile per il femminismo contemporaneo.
Crenshaw fornisce la grammatica dell'intersezionalità per articolare la complessità dell'oppressione; hooks offre il vocabolario politico per criticare il suprematismo bianco all'interno del femminismo; Butler offre gli strumenti per decostruire le categorie stesse che il potere coloniale ha imposto come naturali.
Il progetto decoloniale, quindi, non si limita ad adottare queste teorie, ma le mette in dialogo critico, le radica nelle storie di resistenza al colonialismo e le spinge oltre i loro contesti originari.
L'obiettivo è forgiare un femminismo che non lotti solo per l'emancipazione di "una donna", ma per la liberazione di "tutte le soggettività" schiacciate dall'intersezione di patriarcato, razzismo ed eredità coloniale.
Le loro opere rappresentano una traiettoria intellettuale che ha irrimediabilmente trasformato il femminismo; i loro contributi infatti, letti in dialogo, lo rafforzano.
hooks e Crenshaw mostrano chi viene escluso da un soggetto universale, mentre Butler spiega perché ogni tentativo di definire un soggetto universale è un atto di potere che produce inevitabilmente esclusioni.
Il risultato è un femminismo più esigente e complesso, consapevole che la liberazione non può essere raggiunta attraverso l'affermazione di un'identità, ma attraverso la critica incessante delle strutture di potere che producono e regolano tutte le identità.
hooks, bell: "Ain't I a Woman? Black Women and Feminism".
Crenshaw, Kimberle': "Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics".
Butler, Judith: "Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity".
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