Mediterraneo e Palestina: decostruire le narrazioni dominanti per mettere in luce le strutture di potere che perpetuano l'oppressione.

di socialclimatejustice.blogspot.com

Il Tempo Coloniale e lo Spazio Mediterraneo

Iain Chambers nel suo libro "Lampedusa/Gaza", introduce il concetto fondamentale di "orologio coloniale".
Questa metafora non indica semplicemente una successione cronologica di eventi, ma una "temporalità" (imposta dall'Occidente che misura, classifica e gerarchizza popoli e storie secondo una logica di "sviluppo" e "arretratezza"), in cui le "storie interrotte" dei colonizzati (e dei migranti) sfidano la linearità della storia occidentale.
Gaza e Lampedusa, apparentemente distanti, diventano per l'autore due epicentri in cui questo tempo coloniale si manifesta con brutale evidenza: sono "spazi-limite del Mediterraneo". 
Chambers attinge a pensatori come Frantz Fanon e Edward Said per smascherare come la modernità europea si sia costruita attraverso la negazione e la razzializzazione dell'Altro.
Il Mediterraneo, lungi dall'essere la culla idilliaca della civiltà occidentale, è riletto come un archivio di violenze coloniali, uno spazio di confinamento e di morte, ma anche di inaspettata resistenza culturale.
La prospettiva politica di Chambers è quella di un'epistemologia radicale: per comprendere il presente è necessario "smontare" le categorie ereditate dal colonialismo e porsi in ascolto dei "linguaggi interrotti", ovvero le narrazioni e le memorie di coloro i quali sono stati esclusi dalla storia ufficiale.
Per Chambers, di fronte al fallimento della politica tradizionale e dell'umanitarismo occidentale, sono le arti – la musica, la letteratura, le arti visive – a offrire un linguaggio alternativo per articolare la sofferenza e la resistenza.
Questi "linguaggi interrotti" non sono semplicemente testimonianze passive, ma attive "pratiche di sopravvivenza epistemica".
Essi creano archivi di memoria alternativi a quelli dello stato coloniale, preservando storie che altrimenti verrebbero cancellate.
Un concetto cruciale è quello di "traduzione", che Chambers intende non solo in senso linguistico, ma come processo politico e culturale continuo.
Il Mediterraneo diventa così un laboratorio di questa "traduzione continua", dove identità, suoni e storie si mescolano e si trasformano, sfidando le narrazioni essenzialiste e nazionaliste.
Gaza, in questa ottica, non è dunque solo un luogo di morte, ma anche un epicentro di produzione culturale che "traduce" l'esperienza del genocidio in forme artistiche che circolano globalmente, sfidando l'Occidente a guardare i propri limiti.
La prospettiva politica che emerge dal lavoro di Chambers è quella di una "democrazia radicale" che si fonda sulla capacità di "abitare spazi ibridi" e di ascoltare le storie tradotte dall'"altro", smantellando le architetture epistemiche che separano il "noi occidentale" dal "loro subalterno".

Cronaca di un Genocidio annunciato 

Chris Hedges, nel suo "A Genocide Foretold", adotta invece l'approccio del giornalismo critico e testimoniale per costruisce una tesi potente quanto agghiacciante: il genocidio dei palestinesi non è un'eventualità futura o un'iperbole, ma un processo in atto, metodico e deliberato, inscritto nella logica del progetto coloniale di insediamento (settler colonialism) israeliano.
I concetti chiave utilizzati dall'autore sono l'oppressione sistemica, la deumanizzazione e la complicità occidentale.
Hedges documenta meticolosamente le pratiche di espropriazione, la violenza quotidiana dell'occupazione e l'apartheid, sostenendo che esse non siano aberrazioni, ma strumenti necessari al mantenimento di uno "stato etno-nazionalista".
La sua analisi si estende alla critica dei media, accusati di perpetuare una narrazione che oscura la realtà dell'occupazione e legittima la violenza israeliana.
Quello di Hedges è un appello urgente alla responsabilità morale e all'azione: smantellando l'alibi della "complessità", egli invita a riconoscere la dinamica "oppressore-oppresso" e a schierarsi, denunciando l'ipocrisia dei governi occidentali che, in nome dei diritti umani, sostengono il regime coloniale.
Attingendo alla sua vasta esperienza come corrispondente di guerra, Hedges sostiene inoltre che la società israeliana, plasmata da decenni di militarismo e occupazione, è afflitta da una profonda patologia.
Il razzismo e la disumanizzazione del palestinese non sono semplici strumenti politici, ma sono diventati "elementi costitutivi dell'identità collettiva", necessari per giustificare una violenza altrimenti insostenibile.
Hedges documenta come questa logica si traduca in una strategia di "sociocidio": la distruzione deliberata non solo di vite umane, ma delle fondamenta stesse della società palestinese.
L'attacco sistematico a ospedali, università, biblioteche e siti archeologici non è un "danno collaterale", ma un tentativo mirato di cancellare la storia, la cultura e la possibilità stessa di un futuro per il popolo palestinese.
L'analisi dell'autore si distingue per la critica feroce alla "complicità del liberalismo occidentale".
Hedges smaschera l'ipocrisia di coloro che, pur difendendo i valori democratici, sostengono attivamente il progetto coloniale.
Il suo è un richiamo alla "disobbedienza civile e alla solidarietà internazionale" come uniche forze in grado di spezzare questo ciclo di violenza, ponendo l'accento sulla necessità di un boicottaggio e di sanzioni contro Israele.

Il 7 Ottobre come Atto Rivoluzionario 

Filippo Kalomenìdis, con il suo coraggioso "La rivoluzione palestinese del 7 ottobre", offre una prospettiva radicalmente militante.
Il suo quadro di riferimento è quello dell'anticolonialismo rivoluzionario, che legge l'attacco del 7 ottobre non come un atto di terrorismo, ma come insurrezione, una "cesura storica" che spezza la continuità della "pax coloniale".
Kalomenìdis rifiuta esplicitamente il linguaggio e le categorie morali dell'Occidente, che definisce intrinsecamente (quanto manifestamente) complici dell'oppressione.
L'autore intende la "rivoluzione" nel senso fanoniano di "violenza decolonizzatrice": un atto necessario e inevitabile con cui l'oppresso reclama la propria soggettività e umanità.
Kalomenidis interpreta l'evento come un momento di rottura epistemica e politica, un "urlo" che squarcia il velo del discorso umanitario e pacifista, considerato uno strumento di controllo e pacificazione forzata.
La prospettiva politica di Kalomenìdis è inequivocabilmente allineata con la resistenza palestinese in tutte le sue forme.
Il suo lavoro si pone come un manifesto che sfida il lettore a superare i tabù imposti dalla narrazione dominante e a riconoscere la legittimità della lotta di un popolo per la propria liberazione, anche quando questa assume forme violente che scuotono la falsa coscienza occidentale.
Altro pilastro della sua argomentazione è la critica radicale alla "sinistra legalitaria" europea.
Kalomenìdis accusa questa sinistra di essere intrappolata in un "feticismo per la legalità e la non-violenza" che, di fatto, serve solo a perpetuare lo status quo coloniale: rifiutando di riconoscere la legittimità della violenza rivoluzionaria dell'oppresso, essa diventa complice dell'oppressore.
Il suo è quindi un invito a un "internazionalismo militante che non abbia paura di schierarsi", che riconosca la necessità della rottura e che veda nell'insurrezione palestinese una fonte di ispirazione per tutte le lotte contro il capitalismo e l'imperialismo a livello globale.

Una Storiografia Critica

Ilan Pappe, uno dei più noti "Nuovi Storici" israeliani, fornisce con la sua "Storia della Palestina moderna" il fondamento storiografico per comprendere le analisi precedenti.
Il suo quadro teorico è quello della storia critica o "dal basso", che si oppone alla storiografia nazionalista e sionista.
Pappe decostruisce sistematicamente il mito fondativo di Israele come "una terra senza popolo per un popolo senza terra", dimostrando l'esistenza di una vibrante e articolata società palestinese prima del 1948.
Il concetto chiave che attraversa l'opera di Pappe è quello di "pulizia etnica".
Basandosi su documenti declassificati, Pappe argomenta in modo circostanziato che l'esodo palestinese del 1948 (la Nakba) non fu una conseguenza involontaria della guerra, ma il risultato di un piano deliberato e sistematico da parte della leadership sionista per espellere la popolazione araba e creare uno stato a maggioranza ebraica.
Questo approccio storico-critico gli permette di tracciare una linea di continuità diretta tra il 1948 e la realtà odierna dei Territori Occupati.
Questa rilettura storica è fondamentale, perché sposta il focus dal "conflitto" tra due popoli a una dinamica di "colonizzazione".
Pappe non si limita a denunciare la Nakba, ma ne ricostruisce la pianificazione a tavolino, analizzando i verbali delle riunioni, gli ordini militari e le decisioni politiche che hanno portato all'espulsione di massa dei palestinesi.
L'autore dimostra come la pulizia etnica non sia stata un atto di passione o di caos bellico, ma un'operazione razionale e calcolata, un "progetto biopolitico" volto a ingegnerizzare la demografia del territorio.
La prospettiva politica di Pappe è quindi conseguente alla sua analisi storica: se il problema è la natura stessa di uno stato etnico-coloniale, la soluzione non può essere quella dei "due stati", che legittimerebbe i frutti della pulizia etnica.
L'unica via per una pace giusta è il riconoscimento della colpa storica della Nakba, il superamento del sionismo e la creazione di uno "stato unico, laico, binazionale e democratico" in tutta la Palestina storica, con uguali diritti per tutti i suoi cittadini, ebrei e arabi, e l'attuazione del diritto al ritorno per i profughi.

Prospettive politiche in dialogo: Convergenze e conclusioni

La lettura congiunta di questi quattro testi rivela un potente quadro interpretativo della questione palestinese.
Sebbene diversi per stile e approccio – dalla teoria postcoloniale di Chambers al giornalismo di Hedges, dalla militanza di Kalomenìdis alla storiografia di Pappe, gli autori convergono su alcuni punti cruciali.
La centralità del paradigma coloniale: tutti e quattro gli autori identificano nel sionismo un progetto di "settler colonialism", rifiutando la narrazione di un conflitto tra due nazionalismi equivalenti.
La critica all'epistemologia occidentale: ciascun autore, a suo modo, smaschera la complicità delle narrazioni dominanti (storiche, mediatiche, politiche) nel perpetuare l'ingiustizia.
La necessità di un cambio di paradigma: per immaginare un futuro di pace e giustizia, è indispensabile abbandonare i quadri interpretativi che hanno finora normalizzato l'oppressione e adottare prospettive che mettano al centro la voce e i diritti del popolo palestinese.
La Cisgiordania e Gaza non sono territori "contesi", ma la continuazione del progetto di pulizia etnica con altri mezzi: frammentazione territoriale, apartheid legale, assedio economico.
Il concetto di "prigione più grande del mondo" riferito a Gaza non è una metafora, ma la descrizione letterale di un sistema di controllo totale sulla vita di una popolazione.
In conclusione, queste opere non offrono risposte semplici, ma forniscono strumenti analitici essenziali per una comprensione profonda e critica.
Costringono a confrontarsi con la "natura strutturale della violenza coloniale", a riconsiderare il significato di concetti come "resistenza" o "terrorismo" e, in ultima analisi, a interrogarsi sulla posizione politica ed etica da assumere di fronte a una tragedia che, come dimostrato da questi autori, è tutt'altro che incomprensibile.


Iain Chambers: "Lampedusa/Gaza. L’orologio coloniale e i linguaggi interrotti";

Chris Hedges: "A Genocide Foretold: Reporting on Survival and Resistance in Occupied Palestine";

Filippo Kalomenìdis: "La rivoluzione palestinese del 7 ottobre";

Ilan Pappe: "Storia della Palestina moderna".


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