di socialclimatejustice.blogspot.com
Nell'ambito del vivace dibattito contemporaneo sulla crisi ecologica planetaria, il concetto di "Piantagionocene" rappresenta una proposta teorica capace di offrirne una genealogia politicamente densa sulle origini.
Coniato in una conversazione tra accademici e poi reso celebre da pensatori come Jason W. Moore, Donna Haraway e Anna Tsing, il termine si distacca dalla nozione apparentemente neutrale di "Antropocene" per radicare la trasformazione geologica del pianeta in una storia specifica: quella della piantagione come modello di organizzazione della natura, del lavoro e della società.
Il Capitalocene e la Genesi del Piantagionocene
Per comprendere appieno il Piantagionocene, è necessario partire dalla critica radicale che Jason W. Moore muove al concetto di Antropocene.
Secondo Moore, attribuire la crisi ecologica all'"Anthropos", un'umanità indifferenziata e astratta, occulta le reali dinamiche di potere e le responsabilità storiche.
La narrazione dell'Antropocene, a suo avviso, è una "favola" che assolve il sistema che ha effettivamente orchestrato la trasformazione del pianeta: il capitalismo.
Moore propone quindi di sostituire questo termine con "Capitalocene", per indicare "l'era del Capitale" come specifico regime ecologico.
Il capitalismo, nella prospettiva dell'autore, non è solo un sistema economico, ma un modo di "organizzare la natura".
Il suo quadro teorico, noto come "world-ecology" (ecologia-mondo), rifiuta la dicotomia cartesiana tra Natura e Società, sostenendo che il capitalismo funziona attraverso una continua e violenta interazione tra dinamiche sociali ed elementi naturali.
Il capitale non agisce "sulla" natura, ma "attraverso" di essa.
Elemento cardine di questa organizzazione è la strategia della "natura a buon mercato" (cheap nature).
Il capitalismo, per sostenere l'accumulazione senza fine, ha storicamente necessitato di appropriarsi di lavoro, cibo, energia e materie prime a costi irrisori.
Questo processo di "svalorizzazione" non è mai stato pacifico, ma si è fondato sulla violenza sistemica, il colonialismo e su nuove frontiere di appropriazione.
È in questo contesto che la piantagione assume un ruolo emblematico e fondativo.
La piantagione, emersa su larga scala a partire dal "lungo sedicesimo secolo" (1450-1650), rappresenta per Moore il prototipo del Capitalocene.
Essa non è solo un'azienda agricola, ma un modello rivoluzionario di semplificazione ecologica e controllo sociale.
Semplificazione e Monocultura: la piantagione impone una drastica riduzione della biodiversità, sostituendo ecosistemi complessi con monocolture destinate al mercato globale (zucchero, tabacco, cotone, caffè).
Questa semplificazione rende gli ecosistemi fragili e dipendenti da input esterni.
Violenza e Lavoro a Buon Mercato: la piantagione è inseparabile dalla violenza della schiavitù e del lavoro coatto.
La "deumanizzazione" di intere popolazioni (in primis africane e indigene) è stata la precondizione per trasformare il loro lavoro in "natura a buon mercato".
La Frontiera come Strategia: il modello della piantagione è intrinsecamente espansivo.
L'esaurimento dei suoli e la resistenza umana spingono costantemente il capitale alla ricerca di nuove frontiere da conquistare e "semplificare".
Dualismo Natura/Società: la logica della piantagione ha consolidato l'idea di una natura esterna, passiva e misurabile, da dominare e sfruttare.
Allo stesso modo, ha creato gerarchie razziali e di genere, relegando le donne e i popoli colonizzati nella sfera della "Natura", giustificandone così lo sfruttamento.
Il Piantagionocene è dunque l'espressione più paradigmatica e originaria del Capitalocene: è la matrice che ha permesso al capitalismo di nascere e prosperare; un modello di relazioni socio-ecologiche basato su violenza, alienazione e semplificazione che, secondo Moore, si è poi esteso globalmente in forme diverse, dall'agricoltura industriale alle moderne catene di montaggio.
Dal Piantagionocene allo Chthulucene
Donna Haraway, figura di spicco del femminismo, riprende e dialoga con il concetto di Piantagionocene.
Haraway riconosce la potenza critica sia del Capitalocene che del Piantagionocene nel correggere la narrazione universalizzante dell'Antropocene.
Per lei, nominare correttamente il problema è un atto politico cruciale.
Il Piantagionocene, nella lettura di Haraway, sottolinea in modo ineludibile che le "devastanti trasformazioni del pianeta siano state innescate da piantagioni estrattive".
Questo concetto permette di connettere indissolubilmente la storia del razzismo, della schiavitù e del colonialismo alla storia ecologica della Terra.
La piantagione, con il suo trasferimento forzato di piante, animali e persone, e la sua violenta soppressione delle diversità biologiche e culturali, è la perfetta rappresentazione delle logiche che hanno condotto alla crisi attuale.
Tuttavia, Haraway non si ferma alla diagnosi.
La sua proposta è quella di andare oltre le narrazioni apocalittiche, che rischiano di paralizzare l'azione.
Se Antropocene, Capitalocene e Piantagionocene descrivono le forze distruttive in atto, è necessario un altro termine per pensare e praticare la sopravvivenza e la coesistenza su un pianeta danneggiato.
Questo termine è "Chthulucene".
Lo Chthulucene di Haraway evoca le potenze ctonie, terrestri, tentacolari.
È un'era del "fare parentele" in modi inaspettati e non gerarchici, al di là dei legami di sangue e di specie.
Lo Chthulucene è un invito a riconoscere le interconnessioni simbiotiche e complesse che legano tutti gli esseri viventi, umani e non umani: è un tempo per il "compost".
Haraway insiste sulla necessità di "rimanere con il problema", ovvero di abitare le complessità del presente senza cedere a facili soluzioni tecnocratiche o a nichilismi disperati.
Haraway propone di ripensare le forme della riproduzione e della parentela, privilegiando la creazione di legami di cura e solidarietà multispecie.
Si tratta di sviluppare modi di pensare e agire "tentacolari", che siano esplorativi, connettivi e capaci di percepire e rispondere alle sfumature del mondo.
Per Haraway, riconoscere il Piantagionocene è il primo passo necessario per poter immaginare e costruire lo Chthulucene, un futuro basato sulla collaborazione e la coesistenza tra le rovine del capitalismo.
Il Piantagionocene e l'Antropocene "a macchie"
L'antropologa Anna Tsing offre un'ulteriore, cruciale prospettiva.
Nel suo lavoro, la piantagione diventa una lente per comprendere la natura disomogenea e "a macchie" delle trasformazioni planetarie.
Tsing critica la tendenza a immaginare l'Antropocene (o il Capitalocene) come una forza omogenea e totalizzante che ricopre il mondo in modo uniforme.
Al contrario, essa produce paesaggi radicalmente diseguali, caratterizzati da "semplificazioni modulari" e "proliferazioni ferali".
La piantagione è l'esempio perfetto di "semplificazione modulare": un modello di ordine e controllo che può essere replicato in luoghi diversi, ma che al contempo produce effetti incontrollati e "ferali" al di fuori dei suoi confini.
La monocoltura crea le condizioni ideali per la diffusione dell'epidemia, che poi si propaga in modo imprevedibile, seguendo le geografie diseguali delle piantagioni nel mondo.
Il contributo di Tsing è fondamentale per due ragioni.
Attenzione alla Specificità: l'autrice invita a studiare etnograficamente le ecologie situate e le storie specifiche di come la logica della piantagione si manifesti e venga contestata in luoghi diversi.
Non esiste un solo Piantagionocene, ma molteplici storie di semplificazione e resistenza.
Sopravvivenza nelle Rovine: come Haraway, Tsing è interessata a ciò che riesce a vivere "nonostante e attraverso" le rovine del capitalismo; un'esplorazione delle ecologie precarie e collaborative che emergono in paesaggi devastati dall'industria, mostrando come la vita persista in forme inaspettate.
La prospettiva politica che emerge dal lavoro di Tsing è quella di un'"arte dell'osservazione".
Si tratta di imparare a vedere le storie di interdipendenza multispecie che continuano a esistere nelle crepe del Piantagionocene, valorizzando le forme di conoscenza e di vita che resistono alla semplificazione capitalista.
Prospettive Politiche
Il concetto di Piantagionocene, arricchito dai contributi di Moore, Haraway e Tsing, offre un quadro teorico di straordinaria potenza per comprendere la crisi attuale. Esso sposta il focus da un'umanità astratta a un sistema storico concreto, il capitalismo, e alla sua matrice operativa, la piantagione; le prospettive politiche che ne derivano sono radicali.
Giustizia Climatica e Razziale: il Piantagionocene dimostra che la crisi ecologica non può essere separata dalla storia del razzismo e del colonialismo.
La lotta per la giustizia climatica è intrinsecamente una lotta decoloniale e antirazzista.
Critica alla Semplificazione: allerta contro le soluzioni tecnocratiche che propongono ulteriori forme di controllo e semplificazione della natura.
Al contrario, suggerisce la necessità di promuovere la diversità biologica e culturale.
Alleanze Multispecie: spinge a ripensare l'azione politica in termini di alleanze che attraversino i confini di specie, riconoscendo che la sopravvivenza umana dipende da quella di innumerevoli altri esseri.
Decolonizzare l'Immaginario: suggerisce che per superare la logica della piantagione, è necessario decolonizzare il nostro immaginario, abbandonando il dualismo Natura/Società e le categorie di pensiero che hanno giustificato lo sfruttamento.
In conclusione, il Piantagionocene non è solo una proposta per rinominare un'era geologica: è uno strumento analitico per tracciare una genealogia della crisi, un manifesto politico per connettere lotte diverse e un invito etico a immaginare e praticare modi di abitare la Terra che rifiutino la violenza, la semplificazione e l'estrattivismo che la piantagione ha inaugurato.
Jason W. Moore: "Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital";
Donna Haraway: "Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto";
Anna Tsing: "Il fungo alla fine del mondo. Sulla possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo".
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