POTLATCH: l’antica cerimonia dei doni degli indiani americani.

tratto da "Il potlatch, l’antica cerimonia dei doni degli indiani americani"; di Sergio Amendolia.


Grazie all’ambiente naturale favorevole, all’abbondanza di caccia e pesca, alla diffusa varietà di radici, piante e frutti, nonché alla capacità di conservazione ed immagazzinamento dei prodotti, i popoli indigeni delle regioni nordoccidentali americane furono in grado di costituire comunità stanziali in villaggi permanenti, con densità relativamente significative e conseguente complessità dei sistemi di stratificazione sociale. 

La notevole capacità di valorizzazione del commercio, unita all’abilità di solcare l’oceano e di spostarsi lungo la costa, agevolarono inoltre la diffusione di usanze e credenze similari tra le varie tribù, per le quali è possibile definire l’area del nord ovest con un certo grado di omogeneità. 

Tali condizioni resero possibile anche uno sviluppo comune di riti elaborati e diversificati, con l’impiego di costumi e maschere cerimoniali, molto spesso legate alla vita sociale ed alla distinzione in gerarchie all’interno delle comunità. 
Il rango e la posizione sociale, per queste popolazioni native, erano strettamente connessi con il potere che permea tutto l’universo. 
Esso deriva essenzialmente dal mondo degli spiriti, i quali, manifestandosi materialmente sotto forma di animali, sacrificano così la propria essenza eterea a beneficio degli umani. 
Ecco perché le cerimonie sacre erano spesso contraddistinte da questo rapporto simbiotico tra uomo e animale, entrambi connessi da una complessa rete terrena di reincarnazioni reciproche. 

La caccia e la pesca assumevano una forte dimensione sacrale: l’uomo si cibava della carne dell’animale liberando lo spirito che era in lui, così da dargli l’opportunità di reincarnarsi nuovamente nell’infinito ciclo della vita. 
In questa estesa forma di spiritualità della natura, per l’indiano del nord ovest il cibo era quindi sacro ed i pasti collettivi, anche programmati tra tribù normalmente distanti tra loro, rappresentavano una magnifica occasione per celebrare questi riti spirituali nei quali ritrovare parenti lontani, fare nuove conoscenze, rinsaldare vecchie amicizie e antiche alleanze. 

Soprattutto durante la stagione invernale l’intera società indiana entrava nella parte dell’anno connessa con la morte e la rinascita e, quindi, esclusivamente dedicata alle attività sacre. 
Spesso queste celebrazioni si concludevano con un potlatch, ossia con una distribuzione di beni ed oggetti preziosi agli invitati, rispettando un rigido ordine gerarchico.

Il potlatch – parola derivante dal dialetto Chinook che significa “regalo” – si teneva in occasione di eventi importanti, come nascite, morti, adozioni o matrimoni, in modo da raggruppare quante più persone possibile attorno ad importanti riti di passaggio. 

La scelta della stagione invernale, oltre al già citato tema rituale della “rinascita”, era dovuta anche al fatto che i mesi estivi, essendo caratterizzati dall’abbondanza dei prodotti della natura, erano dedicati a procurare ricchezza per la famiglia e per il villaggio. 

L’accumulo dei beni e degli oggetti nel corso dell’anno, mobilitava una complessa rete di connessioni, che comprendeva doni, prestiti, restituzioni e transazioni di vario tipo. 

Con l’arrivo della stagione invernale il leader della tribù, al fine di affermare la propria ricchezza ed il proprio potere, preannunciava a tutte le comunità confinanti la data ed il luogo in cui si sarebbe tenuto il particolare rito, nel quale egli avrebbe donato ai partecipanti tutti gli oggetti di valore accumulati nei mesi precedenti, distruggendo pubblicamente quelli in eccesso, in modo tale da tornare, di fatto, in uno stato di semi povertà. 

Il tutto si svolgeva, grazie all’intercessione degli sciamani, mediante una profonda connessione con l’aldilà: il capo tribù rivendicava la propria forza morale di leader presentandosi agli spiriti degli antenati, alla famiglia ed ai clan presenti, con una ferrea volontà di rinascere a nuova vita, purificato da pericolosi meccanismi di egoismo ed avidità e pronto a guidare con saggezza la collettività affidatagli dagli dei. 

Non a caso alcuni popoli, come i Kwakiutl, chiamavano la cerimonia “makwa” ossia “fare una grande cosa”. 

Il potlatch si svolgeva spesso in un’atmosfera di festa, musica, danza, canto, con l’organizzazione di scherzi e giochi. 
Le famiglie indossavano insegne e monili che contrassegnavano la loro posizione ed il rango all’interno del clan: copricapi, coperte, grembiuli per le danze. 
Si accantonavano in bella vista lungo il tragitto i doni: grandi quantità di cibo, panchine intagliate, placche di rame a forma di scudo, maschere cerimoniali raffiguranti gli spiriti guida, pali totemici finemente decorati. 

La narrazione era un elemento fondamentale e, presso alcune popolazioni, assumeva talvolta connotati politici, per cui gli esponenti più rappresentativi delle tribù partecipanti si dilungavano in discorsi, nei quali si discuteva, si negoziava e si stipulavano veri e propri accordi commerciali (titoli) in grado di garantire il diritto di caccia, pesca e raccolta di bacche nelle varie aree costiere. 
Questi titoli, di anno in anno venivano trasferiti da un clan all’altro, perché tutti potessero godere in egual misura delle molte risorse delle diverse zone costiere. 

Una volta conclusi e accettati gli accordi, l’organizzatore del potlatch consegnava i titoli e distribuiva agli astanti il cibo conservato in stuoie e contenuto in cesti di stoccaggio, insieme a coperte ricavate da pelli di animali e oggetti ornamentali di rame lavorato.  

In alcune feste poteva accadere che l’ospite sfidasse l’organizzatore del potlatch, donando e distruggendo nei falò, a sua volta, grandi quantità di ricchezza, per dimostrare la superiorità del proprio clan. 
Tale pratica non era causa di dissapori tra le diverse famiglie, ma anzi rappresentava una sana competizione ed un efficace stimolo affinché ci si potesse impegnare a fondo nel dimostrare pubblicamente la propria generosità, senza risparmio di energie e tanto da non temere rivali.  

I significati del potlatch erano quindi molteplici, dal riequilibrio economico della società indiana di riferimento, al potere di riunire i conflitti interpersonali accaduti durante l’anno, fino alle occasioni di discussione politica e diplomatica tra i clan. 

Nonostante la presenza di rigide gerarchie, la cerimonia del potlatch evitava che un clan potesse prevalere sugli altri accaparrandosi in maniera smisurata le risorse disponibili, pena la perdita di potere e prestigio di fronte alla comunità. 

Sostanzialmente nessuna ricchezza duratura poteva essere alla base di una posizione di supremazia e, contestualmente, ogni componente del villaggio poteva contare su una certa tranquillità economica, indipendentemente dal proprio ruolo sociale.

Il contatto con l’uomo bianco

Gli europei che occuparono queste vaste aree del nord America, non capirono mai il grado evolutivo delle società indiane che abitavano il nord ovest ed il sub artico. 

Per gli esploratori, infatti, gli immensi spazi a disposizione giustificavano l’idea che il territorio fosse in gran parte disabitato e che la mancanza di una società accentrata e strutturata in maniera simile a quella del vecchio continente, dimostrasse senza dubbio alcuno lo stato selvaggio e primitivo dei popoli nativi. 

Con la storica colonizzazione dell’odierno Canada, si instaurò quindi nelle comunità di pionieri bianchi una marcata diffidenza e ostilità verso tutti i riti pagani praticati dalle tribù, ritenuti un serio ostacolo alla civilizzazione del Paese ed alla sua completa cristianizzazione. 

In particolare la cerimonia del potlatch fu vista subito dai missionari e dagli agenti governativi come un’usanza pessima, dispendiosa, improduttiva e contraria ai “valori civili” di accumulo di beni e ricchezza privata, tipica dei popoli europei. 

La sua eliminazione diventò ben presto un obiettivo chiave per le politiche di assimilazione. 

Nel 1884 lo Stato del Canada, con un emendamento all’Indian Act (legge di regolamentazione delle popolazioni native) vietò la cerimonia, criminalizzandola con pene detentive. 

Tale imposizione non venne però presa seriamente dalle nazioni indiane, che continuarono a praticarla in clandestinità, anche grazie alla notevole difficoltà per le autorità europee di individuare la celebrazione del rito e di far conseguentemente rispettare il divieto. 

Nel 1888 l’antropologo Franz Boas, scriveva: "Queste feste sono così strettamente connesse con le idee religiose dei nativi e regolano il loro modo di vivere a tal punto che le tribù cristianizzate vicino a Victoria non hanno rinunciato a praticarle". 
Anche gli agenti governativi ritenevano tale legge inutile e dannosa, convinti invece che l’importanza dei potlatch sarebbe diminuita fisiologicamente con l’avvento delle giovani generazioni indiane, istruite nella civiltà dei bianchi e quindi più “progredite”. 

Nel mondo in cui viviamo concetti come potere, prestigio e ricchezza sono spesso considerati strettamente legati tra loro, talvolta in maniera indissolubile. 

I meccanismi sociali ritenuti in grado di consegnare all’individuo una condizione di privilegio e supremazia – per molte persone difficilmente raggiungibili – sono sempre più connessi con la crescita economica individuale e vengono spesso presentati come un traguardo di felicità cui l’uomo moderno deve anelare. 

Per gli indiani americani il concetto di ricchezza e di benessere assumeva un significato meno assoluto, non un traguardo personale da raggiungere e mantenere il più a lungo possibile, bensì un mezzo temporaneo e collettivo, utile per organizzare al meglio la società secondo i ritmi spirituali della natura, con i quali le comunità native erano strettamente connesse. 

Secondo lo scrittore francese Georges Bataille, inoltre, il carattere agonistico della cerimonia indiana del potlatch, obbligando moralmente il ricevente ad una possibile reciprocità, riusciva a mantenere sane abitudini competitive, accettando anche una struttura suddivisa in classi sociali e gerarchie amministrative, in grado però di conciliare il mantenimento del potere con la possibilità di ridistribuire le risorse disponibili, eliminando le differenze estreme che, invece, affliggono buona parte della popolazione mondiale al giorno d’oggi. 

Molti studiosi definiscono tale modello, comune a diverse popolazioni indigene (Maori, Papua Nuova Guinea) con il nome di “economia del dono”, una sorta di organizzazione sociale alternativa, nella quale il denaro non era contemplato, da contrapporre alla “economia di mercato” che il mondo moderno ha sviluppato. 

Uno spunto da rielaborare in chiave moderna e su cui riflettere alla luce dei sempre maggiori rischi derivanti da uno sfruttamento incontrollato ed illimitato delle risorse naturali del pianeta, in un’ottica di maggiore sostenibilità ambientale e per garantire un futuro di maggiore equità per l’umanità.

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