tratto da "La nostra decrescita non è la loro recessione!"; di Riccardo Mastini.
http://effimera.org/la-nostra-decrescita-non-la-recessione-riccardo-mastini/
Il termine francese décroissance fu usato per la prima volta dal filosofo André Gorz che, nel suo libro Ecologia e Libertà pubblicato nel 1977, scrisse: “L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita ed il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre ad un miglioramento del benessere, che essa sia materialmente possibile”.
Gorz era stato ispirato dal lavoro di Nicholas Georgescu-Roegen, pioniere dell’economia ecologica, che per primo teorizzò che l’economia è un sottoinsieme della biosfera.
Ne consegue che il sistema economico non può crescere all’infinito poiché è incastonato in un sistema ecologico finito.
Successivamente, all’alba del nuovo millennio, il motore trainante della narrazione della decrescita divenne la critica dell’idea di sviluppo economico e di crescita del PIL.
Tale dibattito fu popolarizzato dagli influenti libri dello storico dell’economia Serge Latouche.
La sua critica mirava a contrastare l’egemonia nell’immaginario collettivo della crescita economica infinita come un futuro unidirezionale per l’intera umanità.
In questa prospettiva, è l’associazione automatica del concetto di “crescita economica” con “miglioramento” che il movimento della decrescita vuole smantellare.
La retorica odierna propagandata dalla politica e dai mass media continua ad essere volta a rafforzare l’associazione della crescita del PIL con un miglioramento del benessere dei cittadini, nonostante nei paesi industrializzati sia sempre più evidente il contrario.
Come spiega Federico Demaria “è possibile individuare molteplici e complementari fonti intellettuali che convergono nella decrescita (come ecologia, democrazia e giustizia) per articolare una diagnosi sull’insostenibile essenza della società capitalista ed offrire una prognosi per una radicale trasformazione socio-ecologica.”
La decrescita è: "una transizione volontaria verso una società giusta, partecipativa, ed ecologicamente sostenibile".
Tale transizione è da intendersi come il processo che i paesi più industrializzati devono intraprendere per raggiungere un “ridimensionamento” delle proprie economie nazionali visti i limiti ecologici imposti, a livello globale, dalla biosfera.
Che cosa intendiamo con il termine decrescita?
Per decrescita s'intende un’equa riduzione della produzione di beni e servizi al fine di ridurre il consumo di energia e materie prime.
Ma la decrescita non equivale ad una recessione economica.
Infatti non c’è nulla di più socialmente destabilizzante che l’assenza di crescita in un sistema volto ad un continuo incremento del PIL.
Per questo un elemento essenziale per tale trasformazione socio-economica è rappresentato dall’abolizione della crescita economica come obiettivo sociale.
Quando la maggior parte delle persone pensa alla crescita del PIL immagina un virtuoso processo economico che migliora le loro vite.
Ma i costi della crescita economica sono molti, ad esempio i lunghi orari di lavoro che lasciano sempre meno spazio per rapporti sociali e familiari, la congestione del traffico nelle nostre città, e l’inquinamento dell’aria e dei fiumi.
E infatti in Italia, sebbene il PIL dal 1995 ad oggi sia cresciuto del 74%, gli indicatori di benessere sono rimasti stazionari dall’inizio degli anni ’90: un’ulteriore conferma alla teoria scientifica secondo la quale al di sopra di un certo livello di reddito, ulteriore ricchezza non aumenta la felicità.
Ciò avviene perché una volta soddisfatti i bisogni materiali di base, il reddito individuale supplementare è destinato sempre più a consumi posizionali; ossia quei beni che assolvono alla funzione di esibire e rendere evidenti le differenze di status.
Ne consegue che il miglioramento della qualità della vita nelle società avanzate non è il risultato di ulteriore crescita economica, ma piuttosto dell’incremento nell’uguaglianza dei redditi, maggior tempo libero, e qualità dell’ambiente naturale in cui si vive.
Inoltre, un’infinita crescita economica è assolutamente inconciliabile con la finitezza delle risorse naturali e della fragile ecologia da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza.
Stiamo erodendo le basi ecologiche che rigenerano le risorse naturali delle quali abbiamo bisogno.
La crescita verde è una chimera
La teoria della decrescita mette in discussione il fulcro della cosiddetta “crescita verde” (traduzione del termine inglese green growth): il disaccoppiamento.
Con tale termine si indica la riduzione dell’impatto ambientale generato dalla crescita economica, in conseguenza dell’introduzione di tecnologie che consentono di ridurre il consumo di risorse e la formazione di rifiuti in corrispondenza di determinati livelli di produzione.
Secondo questa teoria, non c’è uno scontro inconciliabile tra crescita economica e conservazione ambientale.
C’è, tuttavia, una distinzione da fare tra disaccoppiamento relativo e assoluto.
Il disaccoppiamento relativo si riferisce ad un declino dell’intensità ecologica per unità di produzione economica.
L’incremento del disaccoppiamento relativo è al cuore del sistema produttivo capitalistico poiché gli input di risorse rappresentano un costo per i produttori.
Di conseguenza, la quantità di energia necessaria per produrre un’unità di PIL a livello globale è diminuita più o meno continuamente nell’ultimo mezzo secolo.
L’intensità energetica di un’unità di PIL globale è ora inferiore del 33% rispetto al 1970.
Lo stesso vale per l’input di risorse naturali più in generale.
Tuttavia, l’uso di energia e risorse naturali non diminuisce in termini assoluti.
Gli impatti ecologici possono ancora aumentare, ma lo fanno ad un ritmo più lento rispetto alla crescita del PIL.
Al contrario, il disaccoppiamento assoluto si verifica quando l’uso delle risorse ecologiche diminuisce in termini assoluti nel tempo.
Quest’ultima situazione è essenziale se vogliamo che l’attività economica rimanga entro certi limiti ecologici.
Solo in un paio di paesi si può osservare una stabilizzazione nell’uso di energia e risorse naturali a partire dalla fine degli anni ’80.
Conseguentemente, potremmo essere indotti a credere che il disaccoppiamento assoluto sia effettivamente fattibile e che alcune economie avanzate possano raggiungerlo.
Ma il problema è che è difficile valutare tutte le risorse incorporate nelle merci importate dall’estero.
In effetti, le economie avanzate tendono progressivamente a sviluppare il settore terziario a discapito del primario e secondario.
E, a meno che la domanda di beni di consumo non diminuisca, sempre più merci vengono importate dall’estero.
Il risultato è che le risorse consumate da un paese possono diminuire nel tempo mentre l’impronta ecologica dei suoi abitanti continua a crescere.
Come prevedibile questo è anche il caso dell’Italia.
In definitiva, in ogni caso, ciò che più conta in termini di sostenibilità sono le statistiche mondiali.
Sia i cambiamenti climatici che la scarsità di risorse sono essenzialmente problemi globali.
Ciò che i dati rivelano è che il PIL mondiale è aumentato più rapidamente delle emissioni di gas serra negli ultimi due decenni, ma tuttavia un disaccoppiamento assoluto non è avvenuto.
Ergo, la crescita economica continua tutt’oggi a determinare un aggravamento del riscaldamento globale.
Politiche eco-sociali per la transizione
Secondo un recente studio, che ha esaminato numerose pubblicazioni riguardo alla decrescita apparse su riviste scientifiche, la maggior parte delle politiche eco-sociali proposte si allineano a tre obiettivi generali.
1) Il primo obiettivo è ridurre l’impatto ambientale delle attività umane attraverso le seguenti proposte:
• ridurre il consumo di materiali e di energia;
• incentivare la produzione e il consumo locale;
• promuovere cambiamenti nei modelli di consumo.
2) Il secondo obiettivo è ridistribuire la ricchezza sia fra paesi che all’interno di quest’ultimi attraverso le seguenti proposte:
• promuovere le valute locali e gli istituti di credito alternativi;
• promuovere un equo accesso alle risorse attraverso politiche di redistribuzione del reddito;
• ridurre gli orari di lavoro per più facilmente ridistribuire l’impiego e creare un reddito di base.
3) Il terzo e ultimo obiettivo è favorire la transizione verso una società conviviale e partecipativa, promuovendo stili di vita a basso impatto ambientale.
Per perseguire una rivoluzione di paradigma economico, la maggior parte di queste proposte prevede un alto livello di intervento statale.
In concomitanza con la crisi dell’economia formale, progetti di economie alternative hanno cominciato a fiorire.
Giorgos Kallis sostiene che: “Questi progetti mostrano i molti volti della decrescita.
Promuovono una transizione a forme di economia più locali caratterizzate da filiere corte di produzione e consumo.
Enfatizzano la riproduzione e la cura, la centralità dei valori d’uso a scapito dei profitti.
Rimpiazzano il lavoro salariato con l’attività volontaria.
Non possiedono una tendenza intrinseca all’accumulazione e all’espansione, e richiedono meno risorse delle loro controparti nell’economia formale.
Queste pratiche di ‘messa in comune’ coltivano la solidarietà e le relazioni interpersonali umane, e generano ricchezza non-monetaria, condivisa.”
Ma nuovi modelli economici non possono essere pensati in isolamento dalla questione del lavoro.
Come giustamente osserva Emanuele Leonardi, l’opera di André Gorz può rappresentare ancora una volta una preziosa fonte da cui attingere: “Gorz mostrava come l’eco-socialismo avesse bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una riduzione e ri-localizzazione dei volumi di produzione e di una riappropriazione autonoma della tecnologia.”
La domanda che a questo punto sorge naturale è se nel mondo politico ci sia qualcuno disposto ad aprire un dialogo sui limiti della crescita e la necessità di una transizione economica.
Può essere difficile per partiti e movimenti fare della decrescita il proprio vessillo, a causa delle difficoltà di affrontare frontalmente un senso comune radicato come quello della desiderabilità della crescita economica.
Ma è altrettanto legittimo aspettarsi che partiti e movimenti politici, che si proclamano “progressisti”, prendano una posizione netta su come garantire prosperità ed eguaglianza in un secolo che sarà marcato dalla fine dell’illusione che un’infinita crescita economica, in un mondo di risorse finite, sia possibile.
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